di Agnese Pieri e Tancredi Castelli
In occasione dell’80º Anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo abbiamo deciso di inaugurare una serie di pezzi a tema resistenziale. Iniziamo oggi con un’intervista a Francesca Picci, autrice del saggio Trattandosi di una donna uscito all’interno del volume Antifasciste e antifascisti. Storie, culture politiche e memorie dal fascismo alla Repubblica (Viella 2024).
Il titolo del saggio di Picci, Trattandosi di una donna, è un’espressione usata da un funzionario del Distretto Militare di Vicenza in una comunicazione scritta con cui viene rifiutata, nel 1950, la richiesta di riconoscimento della pensione di Luigia, che, pur avendo collaborato nelle file partigiane, non ne ha diritto in quanto donna. Nel secondo dopoguerra si pone, infatti, il tema del riconoscimento delle qualifiche, non soltanto per la quantificazione del fenomeno resistenziale o per le onorificenze, ma anche per l’ottenimento delle pensioni. Parte del saggio di Picci si concentra sulle contraddizioni del macchinoso percorso di riconoscimento, che rappresenta un capitolo poco noto della Resistenza ed è un esempio concreto delle difficoltà che si incontrano nel ricostruire la storia della partecipazione femminile alla lotta di liberazione:
«L’Archivio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (Ricompart) conserva la documentazione prodotta dalle Commissioni istituite nell’immediato dopoguerra (1945 e 1948) e dalla Commissione unica nazionale istituita nel 1968. Chi ha curato il fondo Ricompart, in particolare l’archivista Carlo Maria Fiorentino, ha riconosciuto i limiti rappresentati dai documenti relativi al riconoscimento delle qualifiche per un lavoro di ricostruzione storica. Si tratta di una documentazione che attesta un percorso problematico, avvenuto a posteriori e che non tiene conto di tanti fattori, in primis delle dinamiche interne alle Brigate e delle molteplici forme che assume la partecipazione delle donne alla lotta di liberazione dal nazifascismo».
«Le categorie di “Partigiano combattente” e di “Patriota” utilizzate dalle Commissioni regionali per il riconoscimento delle qualifiche venivano attribuite secondo criteri sostanzialmente militari che non hanno colto l’unicità della guerra partigiana e hanno imposto una gerarchizzazione estranea alle brigate. Questo processo, da un lato, ha legittimato il movimento resistenziale italiano, dall’altro però ha prodotto delle storture. La prima consiste nel rifiuto da parte di molti di presentare la domanda per il riconoscimento delle qualifiche, la seconda riguarda il vuoto normativo sulle donne: non essendo concesso loro l’arruolamento negli eserciti regolari, i criteri per il riconoscimento delle qualifiche sono sostanzialmente a discrezione delle Commissioni. I documenti del Ricompart, infatti, si rivolgono spesso alle partigiane utilizzando il maschile e questo crea confusione, arrivando persino a “scambi di persona” quando il nome femminile viene corretto con il corrispettivo maschile. Le donne che hanno voluto farsi riconoscere le qualifiche e la pensione si sono dovute battere molto, e per i loro casi la testimonianza di un compagno che convalidasse i loro resoconti valeva molto più. Senza era difficile che il ruolo avuto all’interno della brigata venisse riconosciuto».
Tra i partigiani che decidono di non fare domanda di riconoscimento ci sono spesso le donne, perché?
«Sì, ci sono i partigiani che, anche per motivi di coerenza politica, non vogliono essere riconosciuti perché rifiutano di passare per questo iter burocratico e istituzionalizzato. E poi ci sono le donne che scelgono di non ricevere nessuna qualifica per evitare di far sapere al resto del paese di aver subito una violenza, oppure per non essere “additate” come quelle che sono state tanto tempo a contatto con gli uomini senza essere sottoposte al controllo della famiglia. E questo vale, in generale, per tutte le donne che hanno partecipato alla lotta di liberazione e che poi hanno dovuto vivere il reinserimento nella società civile. Bisogna considerare che la Resistenza si fa in paesini di montagna, in contesti piccoli e provinciali, dove soprattutto negli anni Quaranta i pregiudizi erano tanti, per cui una donna che partecipa alla Resistenza poteva in alcuni casi essere ritenuta una sorta di puttana. L’accostamento partigiana puttana, favorito dall’assonanza tra le parole, si incontra anche nelle fonti. Ricordiamoci poi, ad esempio, che durante le parate per l’insurrezione il Partito comunista italiano, tendenzialmente, non fa sfilare le donne – che, se presenti, magari vengono derise per come tengono il fucile. Insomma, sono molte le ragioni per cui ci sono state partigiane che hanno scelto di non voler essere riconosciute e ricordate come tali».
Molte, forse la maggior parte delle persone, il primo e magari unico approccio che hanno al tema della Resistenza è a scuola, e lì l’idea che ci si forma e poi si fissa è quella del partigiano maschio col fucile che compie le azioni rischiose e della staffetta che gira in bici per la città. Che ruolo hanno avuto in questa storia l’uso di criteri solo militari per l’attribuzione delle qualifiche di partigiano?
«I criteri militari miniaturizzano il ruolo delle donne fino, quasi, a cancellarlo. O comunque a limitarne l’impatto. Il tema non è tanto opporre la resistenza violenta maschile alla resistenza non violenta femminile e, più in generale, la resistenza in armi e senza armi. Le donne che hanno preso parte alla liberazione certo che accettavano la violenza: se io trasporto munizioni è ovvio che sto accettando di prendere parte a un’azione violenta, così come anche se sto ospitando o nascondendo partigiani in casa. Il fatto che le partigiane abbiano agito forme di resistenza senza imbracciare il fucile non mette in dubbio la legittimità della Resistenza armata, anzi, ne allarga il significato strettamente militare all’interno di un contesto molto complicato quale è stato quello della guerra civile, dove la violenza si esercita al di fuori del suo uso monopolistico da parte dello Stato».
«Un elemento interessante in questo senso è che le donne continuano a vivere nel contesto cittadino o di paese. I Gap stavano all’interno delle città, però comunque in maniera clandestina, con altri nomi e documenti. Le donne che ospitano in casa le riunioni o tengono nascosti partigiani ricercati dai fascisti vivono in quelle case e accettano i rischi legati alla possibilità che qualche vicino possa vederti e denunciarti. Oppure, prendiamo la staffetta: la staffetta trasporta armi e munizioni e lo fa passando per i presidi militari, quindi affrontando livelli di pericolosità se vogliamo anche più elevati di chi magari si trovava imboscato, nascosto o aveva un’altra identità. Le donne sono state esposte alla violenza, hanno accettato di prenderne parte, a volte utilizzando strategie molto ingegnose, ad esempio nascondevano armi e munizioni nei passeggini, oppure fingendo di essere incinte. Se una era scoperta o veniva portata in carcere e torturata o stuprata, oppure fucilata sul posto. Non è che ci fossero tanti altri esiti possibili».
Nelle testimonianze o interviste che hai letto ci sono dei punti di contatto nel modo in cui le partigiane raccontano la loro esperienza?
«Tra le maggiori difficoltà riscontrate nelle ricerche sulla Resistenza al femminile c’è sicuramente il contrasto tra le narrazioni dominanti, tutte al maschile, e l’autorappresentazione che le donne forniscono di loro stesse. Le partigiane descrivono i ruoli ricoperti come ancillari e di secondo piano, sminuendo le loro stesse azioni e le ragioni della scelta resistenziale. Nella maggior parte dei casi l’autorappresentazione che loro fanno di sé stesse è di auto invisibilizzazione. È uno dei dati più importanti che emergono facendo ricerca sulla resistenza femminile. Quando le partigiane rivendicano le loro azioni, lo fanno spesso sminuendo il loro ruolo: io ho fatto il mio dovere, niente più di questo, quelli forti, quelli in gamba erano i miei compagni. Eppure se ci pensiamo la scelta da parte di una donna di prendere parte alla lotta di liberazione è qualcosa di enorme all’epoca. All’interno del contesto bellico e partigiano le donne si trovano per la prima volta in una posizione nuova rispetto alla normalità delle cose, escono dalle mura di casa, per forza di cose vengono da un lato trascinate nella produzione e dall’altra però anche nella politica, perché lavorare in un luogo collettivo significa scambiare idee, opinioni, venire a contatto con realtà politiche. Quando noi leggiamo di ragazze che fanno le staffette, a volte tra l’altro giovanissime, di quattordici o quindici anni, spesso lo fanno contro la volontà delle famiglie o contro la volontà dei mariti».
Il saggio di Picci è il risultato di un tirocinio post lauream svolto presso l’Istituto Storico della Resistenza “Ettore Gallo” di Vicenza (ISTREVI), durante il quale Picci ha partecipato alla realizzazione di un database (consultabile liberamente qui) che raccoglie i dati e le qualifiche delle donne vicentine che hanno preso parte alla guerra di liberazione. Le fonti su cui la studiosa ha lavorato sono state rese disponibili grazie alla collaborazione dell’ISTREVI con l’Archivio di Stato di Vicenza e integrate con i documenti contenuti all’interno del Ricompart. Nel sito dove si può consultare il database delle partigiane vicentine si legge:
Secondo gli ultimi aggiornamenti (23 marzo 2025) risulta un totale di 1087 vicentine che hanno preso parte alla Resistenza (appartenenti a tutte le diverse categorie sopracitate oppure segnalate come “non riconosciute” nel Ricompart), di cui 656 presenti nel fondo dell’Archivio di Stato di Vicenza e 431 nel fondo Ricompart (escludendo le 627 già comprese nelle buste dell’Asvi). In questo totale non sono state incluse le vicentine indicate nella sezione “altri casi”, che annovera altre 254 donne impegnate a vario titolo nella Resistenza. Infine, un controllo degli elenchi di tutte le formazioni partigiane vicentine, contenuti nel fondo Ufficio patrioti dell’Asvi e prodotti nei mesi successivi alla Liberazione, ha portato a rintracciare ulteriori 193 nomi.
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